Quante fotografie avremo scattato anche in questo nostro ritorno in terra africana? Sicuramente alcune migliaia. Alcune le vedrete anche qui nelle pagine che seguiranno, insieme alle testimonianze bellissime di alcuni giovani del nostro gruppo. C’è una “macchina fotografica” particolare però che di fotografie ne ha scattate un’ infinità. Non è composta da componenti meccanici, non memorizza su pellicole o su supporti di memoria elettronica…. No: i nostri occhi le fotografie le imprimono nella mente e nel cuore. Non è retorica questa. E’ la realtà vissuta concretamente, nella “carne” di tutti noi. Occhi gioiosi trascinati dalla curiosità, occhi socchiusi dal sole lucente e dai colori brillanti e unici di quell’ambiente, occhi arrossati dalla polvere insistente delle nostre strade sterrate, occhi bagnati dalle lacrime strappate dai bambini, dalle tante situazioni che letteralmente toglievano il respiro, occhi stanchi alla fine di giornate intense e ricche di umanità, di emozioni, di incontri, di esperienze. Gli occhi gioiosi e intensi di questi nostri giovani che hanno speso un mese della loro estate in situazioni anche di oggettivo disagio e spesso imprevedibili. Che hanno vissuto in modo molto sobrio e spartano e con uno spirito di adattamento davvero ammirevole malgrado la giovane età del gruppo. Un po’ di forza di volontà personale e un po’ di aiuto che l’Africa ti offre e anche gli imprevisti e i disagi vengono affrontati e superati senza troppe difficoltà. Sarebbe qui troppo lungo elencare le cose che abbiamo fatto e visto. Ci penseranno i ragazzi con gli scritti che seguiranno.
Io devo solo ringraziare don Leonardo, don Fausto e tutti i sacerdoti dell’U.P. per l’aiuto e l’incoraggiamento che ci hanno sempre sostenuto. Le comunità cristiane dell’unità pastorale di Toscolano Maderno, di Villanuova e di Castelcovati per il sostegno anche economico della nostra iniziativa. Soprattutto alle tante persone che ci hanno permesso di lasciare alle comunità visitate oltre 18.000 euro. Un grazie anche a chi non crede in queste iniziative: ci spingete sempre più a migliorarle e a renderle più efficaci e interessanti.
Grazie a Padre Giuseppe ormai un fraterno amico che ci ha accompagnato in questo viaggio e a tutti i padri della “Sacra Famiglia” di Martinengo che ci hanno ospitato, in modo particolare padre Vittorio e Fratel Franco a Mongue, sede principale della nostra esperienza. Non c’è il due senza il tre…. Chissà, il desiderio è tanto, mio e dei giovani che ci han giocato la faccia e la vita in queste settimane. Vedremo dove ci porta lo Spirito. Intanto ancora una volta grazie Africa! Grazie a Te Signore che ci hai accompagnati, sostenuti, protetti e soprattutto ci hai fatto vivere una esperienza di Fede e di Carità senza le quali, tutto questo non avrebbe alcun senso.
Don Giovanni
Dal diario di bordo
Il fatto che l’Africa lasci un segno indelebile negli occhi e nel cuore di chi la visita è circostanza nota a quasi tutti. Oltre ad essere una certezza di cui adesso siamo diretti testimoni, comunque, è anche un fatto tangibile e agilmente riscontrabile per chiunque sfogli le pagine del “diario di bordo”. Per questo, rispolverare le nostre immediate impressioni annotate quotidianamente su un piccolo taccuino nero (con ammirevole diligenza da uno di noi e integrate, piano piano, da tutta la truppa!) ci è sembrato un buon modo per rendere una testimonianza il più fedele possibile dell’ esperienza vissuta questa estate. Le parole di don Giovanni, promotore insieme a Padre Giuseppe del nostro “Viaggio che segna”, che fanno capolino a poco meno della metà del diario, suonano un po’ come un monito ed effettivamente segnano il cambiamento di stile dalle annotazioni dei primi giorni -che sono prevalentemente brevi fotografie di ciò che senza troppi preamboli ci si è parato davanti, prescindendo da quello che ci eravamo immaginati, per cui tutto era nuovo e curioso, tutto ancora da inquadrare, vivere ed interiorizzare- a quelle della seconda metà del viaggio, innanzi tutto più lunghe e dettagliate, introspettive, cariche diemozioni nuove e sempre più grandi! “[…] non avrebbe senso vivere un’esperienza come quella che stiamo vivendo senza portare a casa qualcosa che cambi in meglio, anche minimamente, il nostro sguardo, il nostro cuore, la nostra vita. ‘La bellezza salverà il mondo’ … anche qui in Africa, tra tante problematiche, tra i modi di fare e di pensare così lontani dai nostri, cosa ci salva? La bellezza di un sorriso, di due occhi gioiosi, di una parola accogliente, dell’affetto di un bambino, di un tramonto mozzafiato, di paesaggi incomparabili, di chi ti dice: “vieni in casa”… colori di una terra che colorano o possono aiutare a colorare le nostre a volte sbiadite vite da occidentali”. (Missione di Mongue, 10/8/12)
Lo sforzo di migliorarsi, di dare una nuova profondità al nostro modo di guardare al mondo, al nostro rapporto con gli altri, alla nostra dimensione individuale, è costato molto a tutti quanti, ma poco per volta siamo riusciti a sfruttare il contatto con la gente semplice, concreta, povera, ma ricca! Ci siamo fermati a riflettere su cose che a casa siamo abituati a dare per scontato, ci siamo scontrati con la durezza e l’amaro di certe storie in cui ci siamo sentiti coinvolti, anche solo per il fatto di essere fisicamente davanti ad un Padre che ci offriva la sua esperienza di missionario e il suo bagaglio stracolmo di umanità. Spesso sono bastati occhi neri e profondissimi, manine sporche e in cerca di affetto o un cenno di saluto di una donna al lavoro (magari al decimo chilometro di cammino con una cesta colma di cocco in testa e un bimbo allacciato sulla schiena) a spronarci a lasciar perdere tante convenzioni e mettersi in gioco, dare una piccola parte di noi in cambio di involontarie, ma preziose lezioni di vita!
“Mi sveglio e penso a tutto quello che c’è a casa…ma qui c’è ancora un mondo da scoprire.” (Mongue, 16/8/12);
“Ogni passeggiata è un’occasione per capire un po’ d’Africa, masticare un po’ di Mozambico e ragionare un po’ come loro (anche se entrare nella testa di queste persone non è semplice!). Un bambino di forse due anni che cammina da solo con una borsina di plastica in mano per strada è la fotografia di oggi.” (Mongue, 14/8/12);
“la vista di Joao e Miguel la sera ogni volta è un pugno nello stomaco… due fratelli soli al mondo, chissà cosa pensano…” (Missione di Mongue, 15/8/12);
“Prima di tornare a Mongue oggi c’è in programma una simpatica visita all’ospedale di Chiqueque.. non sono molto entusiasta all’idea, so già che non sarà facile. Partiamo dalla pediatria ed è subito una botta! L’ospedale di per sé non niente di sconvolgente, pensavo peggio… il problema sono i bambini ricoverati: sono molto piccoli e mi si stringe lo stomaco. L’ultima stanzetta mi dà il colpo di grazia: infettivi, un bambinetto solo come un cane (o forse di più) sdraiato su un fianco con un tubicino che lo lega alla flebo… Esco velocemente, scappo fuori e ritentiamo con il reparto di medicina. Non va meglio… niente, torno sul bus e mi nascondo dietro le cuffie e la musica. Ripartiamo per Mongue e ci rimettiamo in sesto. Vado pure a messa stasera.. e vado volentieri!”(Ospedale di Chiqueque, 16/8/12);
“Faccio un po’ di foto, cerco i loro occhi e con la macchina fotografica mi sembra di entrare nel loro intimo. Hanno lo sguardo profondo e curioso di chi non capisce bene cosa succede, ma difficilmente smettono di fissare chi li guarda.” (Asilo di Mongue, 17/8/12).
Uno dei biglietti da visita più eloquenti del Mozambico è la bellezza dei luoghi; don Giovanni ha ragione! Paesaggi da togliere il respiro praticamente ad ogni angolo e ad ogni ora del giorno, ci hanno colpito enormemente, aiutandoci ad addentrarci sempre più nel cuore del Mozambico e della sua gente. Lo stralcio che segue è significativo di come anche solo il mezzo di trasporto, assolutamente banale per gli autoctoni, sia stato per noi motivo di entusiasmo e fonte di una curiosità sempre rinnovata!
“Pranziamo e poi partiamo per Morrumbene, andiamo da don Piero. Il viaggio è da film: barchetta a vela artigianale, equipaggio artigianale, passeggeri artigianali; costo del viaggio: il corrispettivo di tre centesimi di euro! Andiamo a vela sulla marea che sale veloce, molto veloce! Qui l’acqua sale e scende con una velocità impressionante regalando spettacoli quotidiani. Quaranta minuti scarsi di navigazione ballando parecchio e siamo nella baia di Morrumbene. La scena è una di quelle che ti raccontano i viaggiatori esperti e che tu di solito ascolti immaginando lo scenario: sbarchiamo in un’ansa di mare dove sono ormeggiate le barchette dei pescatori e sulla battigia ci aspettano donne colorate che raccolgono granchi; sullo sfondo un falegname sta costruendo una barca… giuro che è tutto vero, ho le foto!” (Morrumbene, 18/8/12)
Come è naturale, non sono mancati momenti di stanchezza o più o meno diffusa ma, tutto sommato, non è stato arduo sciogliersi, farsi coraggio e lasciarsi coinvolgere dal calore umano, dai colori, dall’atmosfera magica che contraddistinguono il Continente Nero, nonché dall’entusiasmo di chi ha scelto di dedicare la sua vita ai poveri!
“Non ho molta voglia di visitare un’altra missione oggi, ma appena incontriamo don Piero mi ricredo. A pelle mi piace e ascolto con piacere! Ci fa fare il giro della missione e sembra di essere nello spot dell’ 8 per mille alla Chiesa cattolica… vediamo con i nostri occhi il frutto della generosità della gente che regala una speranza all’Africa da lontano. Don Piero mostra con orgoglio la sua escolina e noi rimaniamo a bocca aperta:bella, organizzata e pulita!” (Morrumbene, 18/8/12). Sarà forse un po’ banale, ma è inevitabile concludere segnalando un potente ‘mal d’Africa’ che ha colpito tutti noi! Chi l’ha ripetuto mille volte, ma sempre con un bel sorriso pieno, chi l’ha urlato attraverso qualche lacrima, chi l’ha taciuto ma l’aveva scritto in viso, chi si è stretto in un abbraccio, chi ha voluto esprimerlo scattando un numero spropositato di fotografie…ognuno di noi ha avvertito una punta di dolore lasciando i bambini di asili e scuole, i ragazzi dell’università, i mozambicani tutti che macinano chilometri sotto il sole e su strada sterrata e, carichi come muli, salutano il ‘mulungu’ che li osserva stranito Padre Fausto e i missionari di Maxixe, la missione di Mongue, Padre Vittorio, Fra Franco, Beatriz, Diaz, la sua Beatriz e le loro tre meraviglie, Joao e Miguel, le spiagge desertiche e immacolate, Fra Alessandro, Padre Pierantonio, André e tutti i missionari di Marracuene, persino l’aeroporto di Maputo! “Si torna a Mongue per l’ultima notte… malinconia, e non pensavo! Il mal d’Africa è una realtà che provi e capisci solo quando l’Africa ti sta per salutare ed è una sensazione strana. Le contraddizioni di questo posto continuano a non lasciarmi indifferente a nulla e credo sia positivo. […] Spesso sono andato lontano senza muovermi da casa, altre volte ho viaggiato fisicamente senza muovere mai la testa della solita vita… qui il connubio è stato perfetto: tantissimi chilometri ed esperienze vere, autentiche e che lasciano il segno. Stasera scrivo per l’ultima volta dal porticato della missione di Mongue e sono felice!” (Mongue, 20/8/12)
“Oggi è il primo giorno che provo un po’ di nostalgia africana, eppure sono ancora qui! Ma il mio cuore è già proiettato a casa, a rivedere negli occhi dei miei alunni italiani quelli dei bambini di Beùla, a rivedere gli occhi dei miei familiari con la consapevolezza di non saper trasmettere loro tutto ciò che ho visto, perché l’Africa non la puoi scrivere, non la puoi raccontare, non la puoi fotografare… ti riempie lo stomaco di sorpresa, stupore, incomprensione, calore, colore , ritmo, sorrisi .. e, semplicemente, non vedi l’ora di poter gustare questo pasto nuovamente!” (in viaggio da Mongue verso Marracuene e poi Maputo, verso casa! 21/8/12)
“Torno a casa ed ho terra rossa ovunque: nelle scarpe, nelle valigie, negli occhi e, soprattutto, nell’anima… la mia Africa me la porto via così!” (Marracuene, 22/8/12).
Merita un affondo specifico il fatto che anche salutare i ragazzi di Toscolano e di Villanuova, don Giovanni e Padre Giuseppe non è stato semplice, poiché la profonda consapevolezza di aver condiviso qualcosa di veramente grande ha complicato il tutto! L’eterogeneità del gruppo, che forse all’inizio ci lasciava perplessi e rappresentava una bella sfida, si è rivelata essere una grande ricchezza ed un efficace strumento per lavorare su noi stessi e provare a smussare quegli aspetti del carattere (difetti) che già intorno ai trent’anni possono essere più spigolosi e duri a morire di quel che si possa credere!
Per tutto questo, infinitamente grazie!
Emanuela, Graziano, Maura, Giuseppe, Stefania, Giovanni.
Vivere alla mozambicana: l’esperienza da Beatriz
Nella nostra avventura in terra africana, l’esperienza che più ha segnato il mio cuore è stata sicuramente trascorrere una nottata “alla mozambicana”, ospiti di Beatriz, la nostra bravissima cuoca. E’ la sera dell’11 agosto quando, al ritorno da uno dei nostri interminabili viaggi con il mashimbombo (il pulmino per intenderci), Diaz ci attende al comando del pick up già acceso, pronto per condurci da Beatriz. Non avendo abbastanza spazio per ospitarci tutti, ci siamo accordati per fare questa esperienza in gruppetti di tre o quattro persone; io, Silvia, Auri e Bucci siamo i primi! Dopo esserci addentrati per qualche kilometro nella foresta giungiamo alla meta e, già nello scendere dalla macchina, assaporiamo cosa significhi la parola “accoglienza” per i mozambicani: tutta la famiglia, nonni e cugini compresi, è in cortile ad attenderci, smaniosa di offrire quel che ha, poco o tanto che sia non importa, a noi ospiti. Dopo averci presentato suo marito Benildo e i suoi tre figli Marta e i gemellini Osvaldo e Eunisio, Beatriz ci mostra frettolosamente le varie capanne dove sono distribuite le stanze della casa: la cucina, la stanza da letto, il soggiorno e il bagno (una buca nella terra!). E’ solo un tour rapido, le vere presentazioni saranno fatte la mattina seguente, perché ormai sono le 20,00 ed è buio, ma proprio buio buio. Per gli abitanti della foresta l’energia elettrica (come l’acqua corrente del resto) resta ancora un sogno lontano e di conseguenza il sole assume un’ importanza assoluta: quando sorge ci si alza e quando tramonta si va a letto, non può essere altrimenti! Ma basta un secondo per accorgersi di che regalo possiamo godere: le stelle africane, scie luminose nel cielo che rispecchiano l’immensità del creato. E’ giunta l’ora di cena e Beatriz ci fa accomodare nella capanna, dove un tavolino è già accuratamente preparato per noi. A lume di candela ci viene servita un’ottima cena a base di riso, pollo, tapioca e insalata; nulla è lasciato al caso e ogni dettaglio è curato alla perfezione: è proprio brava Beatriz! Durante la cena la serata viene animata un po’ dalla suocera, che tra un sorso di gin e una battuta ci fa davvero divertire. Finito di cenare ci viene data qualche istruzione per la nottata e poi di corsa nel letto, o meglio sulle stuoie. Sono le 21,30 e tutte le capanne circostanti hanno già smesso di vivere da un pezzo; per l’occasione Beatriz ha sgarrato di qualche minuto, ma non si può esagerare, la sveglia la mattina è alle 5 per lei….e alle 6 per noi!
Prima di addormentarci noi ragazzi ci scambiamo qualche opinione ed il pensiero comune è stato quello che nessuno, fino ad allora, si era reso conto di dove era: in Mozambico, in mezzo alla foresta, in una capanna di paglia e con gente sconosciuta. Eppure sembrava tutto così normale: è proprio vero che l’accoglienza che riserva questa gente al prossimo ti fa sentire veramente come se fossi a casa tua.
Ore 6,00: la sveglia suona, ma già da un po’ abbiamo gli occhi aperti a causa dei rumori provenienti dall’esterno. Finalmente grazie alla luce del sole possiamo ammirare quanto, nella sua semplicità, sia carina la casa. Beatriz è già nel pieno del suo lavoro e Marta lava i piatti della sera precedente. Per lavarci la faccia ci viene addirittura scaldata dell’acqua sul fuoco per evitare che sia troppo fredda, mentre i gemellini portano la mucca al pascolo. Un ragazzo sale a mo’ di scimmia su di un cocco e fa precipitare qualche noce che Benildo taglia per tutta la famiglia. Dopo una sostanziosa colazione è arrivato il momento di giocare un po’ con i bambini, allora tiriamo fuori i palloni e… chi li ferma più?!
Beatriz intanto li chiama uno a uno e li sistema per le feste; già perché oggi è domenica, giornata di messa e di conseguenza di grande festa per la comunità (lontana anni luce dalla nostra fretta e dalla nostra sonnolenza post sabato sera!). Quando tutti sono tirati a nuovo è l’ora delle foto di rito: per portare testimonianza a tutti della nostra “missione” non sempre bastano le parole, e poi chi se le vuole scordare quelle facce così amiche e solidali?! Dopo aver salutato i nonni, scarpe nei piedi e via tutti insieme verso la chiesa dove Padre Vittorio ci attende per una nuova lezione di vita, una delle infinite che l’Africa ci tatua addosso e che a fatica cancelleremo. Come a fatica cancelleremo questa esperienza e con essa la consapevolezza che non siamo stati ospitati da una famiglia “povera”, ma i veri “poveri” siamo noi e con noi tutte le cose materiali che ci fanno sentire potenti. Ancora una volta la società cosiddetta “occidentale” ha fallito, ancora una volta si conferma vero il fatto che chi ha tanto in realtà non ha niente, e chi non ha niente ha la vista talmente libera da poter scoprire le cose che rendono la vita di un uomo davvero autentica. Cose che magari questo tempo di crisi potrà far ritrovare anche a noi, perché sicuramente non servono soldi per acquistarle…
Matteo Righettini
Il potere di un viaggio che ti mette in discussione
I colori dell’Africa sono tinte forti: il rosso della terra, il verde delle palme e il blu dell’oceano. Sono colori che rimangono impressi, immagini che si inseriscono nella memoria in modo disarmante, come le emozioni che ne derivano. L’Africa sconvolge, è un turbinio che coinvolge tutti i sensi assieme, tanto da riuscire a confondere anche i temperamenti più sicuri. Appena si torna da un viaggio come quello che abbiamo fatto, si fa un po’ fatica a ricominciare la routine di sempre, e si accende dentro allo stomaco un’angoscia, una malinconia e una voglia irrefrenabile di riprendere posto tra quella gente, tra quella terra, tra quei paesaggi. Il Mal d’Africa esiste e ciò che abbiamo visto e provato in 26 giorni ci ha plasmato e arricchito molto più di quanto potessimo immaginare. Per questo non finiremo mai di ringraziare il nostro Don Giovanni e il mitico Padre Giuseppe (PJ) che ci permettono di poter scrivere ora questo articolo che dovrebbe riguardare “ le emozioni vissute, gli ambienti visitati e le persone incontrate durante questa esperienza”.
Cominciamo con lo sfatare il mito che in Africa fa sempre caldo. Bugia. Noi siamo andati nella stagione invernale; infatti, mentre il caldo faceva sciogliere l’Italia, noi la notte dormivamo con due coperte, la sera la felpa era d’obbligo, mentre durante il giorno si potevano indossare t-shirt e pantaloni fino al ginocchio. La pioggia l’abbiamo sentita solo una volta e quando diciamo “sentita” non è a caso, ma proprio perché l’unico giorno che ha piovuto l’ abbiamo presa tutta, visto che ci trovavamo su una barca e non al caldo, con una tazza di thè fumante tra le mani, contando le gocce che cadono nelle pozzanghere. Ora, proviamo a immaginare la situazione: 30 persone a bordo di una barca che naviga nell’Oceano Indiano, a largo delle Isole di Bazaruto, con un mare movimentato e con un cielo che pare lanciare avvisi di temporali, grazie a lampi e tuoni in bella vista. In sottofondo il vento soffia che è un piacere e talvolta la barca dà il via alle danze, un movimento a destra e uno a sinistra. Un ultimo particolare: la barca è a vela, ed è naturalmente inverno. PANICO. ANSIA. ODDIO, CI SI RIBALTA. Ma questi sono pensieri da comuni occidentali. Se sei africano, come i tre marinai della nostra barca, una tempesta non è importante, ancora meno se è ora di pranzo e c’è il pesce fresco fresco da cucinare. E viaaaaa a preparare riso, insalate e pesce “ king” ai ferri per noi uomini bianchi, che dalla paura, un po’ esagerata, di finire in mare, diventiamo a dir poco irritabili. Chi sono questi, dei pazzi? No, giudizio superficiale e affrettato. Sono uomini saggi. Saggi perché hanno la piena consapevolezza che non possono dominare tutto ciò che hanno intorno e per questo attendono. Attendono la fine della tempesta con lucidità e calma. La calma è una loro virtù e la manifestano in qualsiasi occasione, anche nel rapporto con il prossimo. Gli africani NON TI mettono fretta. Loro vivono la giornata. La parola “ritardo” non esiste nel vocabolario africano e non è stato facile adattarsi a questo stile di vita, per noi che abbiamo bisogno di avere tutto sotto controllo per essere sereni. Piano piano però siamo stati modellati da questo ritmo, da questo vivere al momento, siamo entrati nel limbo della tranquillità tanto che non sentivamo il bisogno di sapere né che ora né che giorno fossero. Che gioia non sentire il bisogno di guardare l’ora al polso! Abbiamo visitato tante scuole (asili nido, scuole dell’infanzia, elementari, superiori e università) e questo ci ha permesso di incontrare tanti bambini. Ogni popolo possiede vari dialetti che variano addirittura da città a città, ma la lingua ufficiale è il portoghese. Nessuno di noi lo parlava, ma questo non è stato un problema. Abbiamo riscoperto il linguaggio più antico, quello universale, che permette il dialogo tra popoli di lingua diversa. Qualcuno disse: “Gli occhi sono lo specchio dell’anima” e anche se può sembrare banale non c’è nulla di più vero, attraverso quell’iride nera abbiamo visto un mondo… Uno sguardo fatto di richieste senza pretese. In Africa i bambini vengono tenuti fino all’età di due anni costantemente legati alla schiena della madre grazie alle capulane, grandi tessuti colorati che vengono cinti intorno alla vita e garantiscono alle mamme di essere in contatto con il proprio bimbo 24 ore su 24. Finiti i 24 mesi il bambino scende dal dorso della madre e diventa “indipendente”. Quindi a quest’età ogni bambino impara a camminare con le proprie gambe, senza aver la pretesa di contare sull’aiuto della madre. Per questo il loro bisogno di affetto è grande. Un bacio, una carezza sembra essere speciale e lo è anche chi compie questo grande dono nei loro confronti. I bambini che abbiamo ritrovato dopo una settimana a Marracuene ci hanno riconosciuto, abbracciato e chiamato per nome. Non siamo stati dimenticati. E questo è appagante. Come lo è donare un quaderno o una caramella a bambini che non sanno nemmeno cosa sia e se non si sta attenti ingoiano anche la carta. La parola “scontato” sembra aver perso significato in quei 26 giorni. Cos’è scontato per noi? Ognuno si faccia la propria lista, e poi parli con Miguel e Josè Francisco, due fratelli di 12 e 10 anni che vivono in una stanza vicino all’asilo di Mongue. Sono orfani di padre, madre e sorella. Spesso durante il nostro soggiorno hanno passato un po’ di tempo con noi, la sera vicino al fuoco, ci hanno insegnato qualche canzone in portoghese, e a pescare i granchi… Ma in tutto questo tempo non penso che nessuno li abbia mai visti scontrosi, tristi, o arrabbiati. Il loro sorriso bianco era visibile in qualsiasi momento grazie al contrasto con la pelle scura che al buio si faceva fatica a intravedere. Com’è possibile sorridere quando si è soli al mondo? Ma Miguel e Josè Francisco non sono gli unici mozambicani resilienti. Il Mozambico è un paese povero, sfruttato per di più dalla Cina e dal Sud Africa per le grandi risorse che possiede, come il legno pregiato e le colture. Infatti non è la ricchezza a mancare, ma la ridistribuzione del denaro. I soldi si fermano in mano ai potenti, a coloro che governano, e lo Stato non fa molto per migliorare la situazione che si è venuta a creare, anzi… Il sistema politico dispone di una grande corruzione che si avverte già all’ingresso della capitale: gente che sembra vagare senza una meta, e una fila smisurata di bancarelle che vendono prodotti della terra, vestiti dismessi… La maggior parte delle scuole pubbliche non hanno banchi, le abitazioni sono capanne di paglia senza acqua e elettricità, i mattonisono un lusso, come le automobili d’altronde… Eppure i mozambicani non sono egoisti, ingrati e soprattutto non sono schiavi di quel materialismo che noi conosciamo fin troppo bene e che ci portiamo ovunque. Riguardo a questo, ci viene alla mente Jon Krakauer che ha scritto: “Non bisogna possedere più di quanto non si riesca a caricare in spalla correndo alla mas sima velocità”. Niente di più vero. Beatriz, la cuoca della nostra missione, ci ha confidato che riesce a portare sulla sua testa un peso fino a 50 kg, camminando, tra l’altro, a passo ben disteso perché la distanza tra casa sua e il pozzo è abbastanza lunga e spesso un solo recipiente non basta per tutta la famiglia. Noi abbiamo provato, ma non siamo riuscite a portare sulla testa nemmeno un libro! E c’è chi sostiene ancora oggi che l’uomo bianco è una razza superiore… E infine, per concludere l’articolo, una dedica a tutti coloro che si chiedono cosa abbiamo fatto durante la nostra permanenza (le domande più ricorrenti sono: ” Avete fatto lavori manuali? Avete costruito capanne? Avete coltivato? ecc, ecc.)… Ecco la risposta: non abbiamo intrapreso questo viaggio solo per dare, ma anche per ricevere, non solo per aiutare, ma soprattutto per essere aiutati: lo scopo di questa esperienza era essere curati (dal materialismo, dalla tecnologia, dai pregiudizi, dal volere tutto e subito, dal non accontentarsi, dal mondo occidentale). Curati dentro. E l’Africa è stata la medicina migliore. Andateci e magari parlerete di meno, ma rifletterete di più. Mozambico, obrigada per questo.
Eleonora, Caterina, Valentina
Voci sull’Africa
Esperienza che segna, questo era il titolo della nostra esperienza in territorio africano, e così è stato … Tantissime sono state le emozioni provate, sarà veramente difficile racchiuderle in queste poche righe. La cosa che colpisce di più è senza dubbio l’abissale diversità che c’è tra il nostro mondo e quello africano. Colpiscono i bambini e le persone del luogo, che si accontentano di un sorriso e di un abbraccio per essere felici, non hanno bisogno dei vizi del nostro mondo, cellulari, ipad, computer …colpisce la povertà che è presente in Africa, con famiglie che vivono con 100 euro al mese, cosa assolutamente impensabile nel mondo occidentale e colpisce anche l’incredibile clima di fratellanza e amore che ho respirato ogni giorno. Senza dubbio lascerò un pezzo di cuore in Mozambico e nel pezzo che mi resta porterò senza dubbio le persone che ho incontrato e conosciuto, i ragazzi universitari, quelli che vivono in missione dai padri e senza alcun dubbio i padri stessi che con grande carisma e forza di volontà riescono a fare cose veramente grandi dando una speranza in più a bambini, adolescenti e adulti… Ringrazio tutti i compagni di viaggio che hanno reso questa esperienza indimenticabile, ringrazio tutte le persone che ci hanno appoggiato con offerte e preghiere, ringrazio tutti i padri che ci hanno dato una grande ospitalità, ma soprattutto ringrazio Don Giovanni e Padre Giuseppe che hanno organizzato alla perfezione questo incantevole viaggio… Spero di poter rivivere queste meravigliose e indescrivibili emozioni …
Reculiani Stefano (Stenko)
Questo è l’ombelico del mondo! Se pensiamo alla natura tutto si proietta agli odori, ai colori, ai suoni che si percepiscono in Africa. E’ proprio in questi luoghi che si sente l’abbraccio materno della madre terra, così buona perché ricca di doni, ma anche dura e severa con la sua gente. In questo modo è iniziato il nostro viaggio: siamo arrivati come osservatori discreti, visitando le varie missioni, gustando la compagnia dei bambini, conoscendo l’habitat arido della savana, così vasto e con vegetazione ed animali da noi visti solo allo zoo. Ripensando all’esperienza uno dei ricordi più vivi che ci rimarrà nel cuore saranno proprio i bambini, dallo sguardo stupito, sorridente. Bambini “muscolosi”, non indifferenti alla fatica perché abituati a lavorare con i genitori. Bambini curiosamente sorpresi da noi “bianchi”,dalle nostre macchine fotografiche come se fossero una nuova scoperta. La concezione del tempo, per esempio, è sorprendentemente vissuta senza orologio,appuntamenti, senza la solita frenesia della routine. Il loro tempo è scandito dalla calma, il sole, per esempio, determina l’ora del riposo, così come l’acqua scandisce il momento di bassa marea, di pesca, di approvvigionamento di cibo. Abbiamo capito che Africa è rapporto con la gente, con i loro sguardi puliti, volti pieni di aspettative positive, non rassegnati di fronte ad una realtà certamente più dura della nostra. Ciò che abbiamo veramente portato a casa è stata la speranza e la volontà che questa gente porta in sé; ci ha contagiato e ci ha resi consapevoli di quanto è importante amare la propria terra!
Silvia, Chiara
Siamo partiti con la consapevolezza di quello che avremmo visto, ma nulla era come pensavamo! Alcuni avevano delle perplessità, altri un po’ di paura, sai com’è eravamo a 12000 km da casa! Ma tutto all’arrivo era diverso. All’aeroporto sembrava di essere bene o male in un paese occidentale, tutto era nella normalità; l’inferno ai nostri occhi si aprì solamente all’uscita dall’aeroporto, percorremmo pochi kilometri e ci trovammo in mezzo a quello che effettivamente è il Mozambico! Sporcizia ai bordi delle strade, caos, miseria, povertà! In pochi istanti eravamo già immersi in una nuova realtà! Il percorso tra l’aeroporto e la missione (un’oretta circa) fu di assoluto silenzio, i nostri occhi, i nostri sguardi erano alla ricerca di un qualcosa che non c’era, eravamo ammutoliti… io personalmente, come penso tanti altri non ci aspettavamo tutta quella miseria! Eppure sapevamo a cosa andavamo incontro! Il Mozambico è uno tra i paesi più poveri al mondo, povero materialmente, ma pieno per quello che ho potuto notare di assoluti valori che contraddistinguono i paesi Africani. Ebbene sì, il Mozambico è ricco di valori quali la Fratellanza, l’Accoglienza, l’Allegria… che oggi come oggi, purtroppo, nei paesi occidentali si stanno perdendo! È stato appunto questo il motivo principale del nostro viaggio, della nostra Missione. Perché l’obiettivo fondamentale non è tanto il fatto di aiutare le popolazioni locali attraverso la costruzione di case, di scuole, di asili… anche questo sicuramente è importante, ma il nostro obiettivo era un altro, era quello di prendere consapevolezza attraverso queste persone di come è bello vivere anche senza niente! Senza nulla loro riescono a trarre il meglio di tutto, riescono ad accontentarsi delle piccole cose, riescono a riscoprire la vera bellezza della vita, che non è fatta di grandi cose, anzi sono le piccole cose, la loro umiltà che rendono la loro vita migliore pur vivendo solamente con l’essenziale. È stata veramente un’esperienza fantastica, una vera e propria esperienza di vita: consiglierei a tutti un viaggio in quei posti per rendersi conto effettivamente di quanto siamo fortunati e non ce ne rendiamo minimamente conto!
Antonio
Non solo vacanze
È difficile riuscire a descrivere in poche righe un viaggio, quello nelle missioni dei Religiosi della Sacra Famiglia in Mozambico, che ci ha segnato profondamente come famiglia, per quanto abbiamo potuto vedere e vivere durante l’estate appena trascorsa. Quando abbiamo deciso di partire eravamo consapevoli di affrontare un’avventura. Non si trattava del solito giro turistico organizzato ma di intraprendere un viaggio nel vero senso del termine. Un viaggio, pensavamo, arrischiato: partire in cinque (tre ragazzini), insieme a un gruppo di giovani già affiatato, per un paese lontano, povero, emarginato rispetto al nostro mondo occidentale ricco ed evoluto, con la prospettiva di lunghe e scomode trasferte su mezzi di trasporto e strade inadeguati: «Chissà il cibo, la pulizia, le malattie». Tutto vero! Ci siamo trovati “intrappolati” in un lunghissimo e faticoso viaggio, con trasferimenti su piste polverose e interminabili, con tanto freddo la sera (là era inverno), solo acqua fredda per lavarsi, sveglie all’alba… Ma abbiamo avuto modo di vivere un’avventura unica che ci ha dato la possibilità di vedere dal di dentro la realtà di un mondo povero, arretrato, privo di tutto quello che noi consideriamo indispensabile ma aperto all’incontro, giovane, accogliente. Un popolo che ci ha accolto sempre col sorriso, apparentemente senza nulla da darci ma che, alla fine, ci ha arricchito immensamente, ci ha fatto innamorare, ci ha scandalizzato quando ha messo a nudo la nostra povertà, la nostra incapacità di vivere il tempo del rapporto con l’altro, la nostra fretta, la nostra incapacità di ascolto, la nostra frenesia. Il popolo mozambicano non ha fretta, ascolta, ti fa sentire la sua presenza, sorride e ti accoglie. Abbiamo vissuto la realtà di ciò che le missioni e la fatica della Congregazione della Sacra Famiglia ha costruito in anni di paziente lavoro. Le scuole: dall’infanzia, alla primaria, alla secondaria, gli orfanotrofi, un’Università Pedagogica. Un nuovo approccio missionario: fare cultura per un nuovo uomo africano reso libero dalla conoscenza, l’unica cosa che rende liberi e uguali. È davvero ammirabile il lavoro che i missionari e le missionarie della Sacra famiglia stanno portando avanti in questa terra mozambicana, un lavoro ambizioso ma che già ha portato molti frutti. Abbiamo provato l’esperienza di una messa africana (per il giubileo della Diocesi di Inhambane e in ricordo del martirio di 12 catechisti uccisi al termine della guerra civile): un rito durato 4- 5 ore, inimmaginabile dalle nostre parti, con canti, suoni, balli, omelie e discorsi; tenuto in un grande spazio all’aperto, con la partecipazione di rappresentati di diverse confessioni cristiane e la presenza di centinaia di persone, protagoniste della celebrazione e non partecipanti passivi. E pensare che spesso da noi il tempo massimo di sopportazione è intorno ai 45 minuti!!! Abbiamo avuto modo di conoscere e di convivere con i ragazzi di Toscolano Maderno e di Castel Covati che, partiti insieme a noi e guidati da don Giovanni Cominardi, hanno avuto il coraggio di intraprendere questa avventura in terra africana, dove la povertà non ha nulla a che vedere con la nostra (è inimmaginabile fare paragoni con una nazione in cui la prima causa di morte è la malaria, il 30% delle persone è sieropositivo per AIDS, non c’è corrente elettrica se non nelle grandi città e si vive in capanne di paglia!): da generosi si sono resi disponibili per capire e aiutare con semplicità e amore. Abbiamo avuto il privilegio di affrontare insieme a loro questa bellissima esperienza, ci siamo calati in una realtà davvero inimmaginabile per chi non la vive, una realtà che ti lascia il segno, un mondo che è entrato prepotentemente dentro di noi e che difficilmente ci abbandonerà. Ai Padri della Sacra Famiglia, e a padre Giuseppe Vitari in particolare, un grazie di cuore per averci permesso di intraprendere questo viaggio e per averci accompagnato in un’avventura bellissima e davvero unica. Come genitori, ci sentiamo veramente privilegiati e siamo certi che questa esperienza abbia formato i nostri figli alla conoscenza, nella grazia di Dio.
Virna e Vittorio Giudici