In questi giorni di preparazione alla giornata missionaria, abbiamo tracciato un percorso con alcune tappe. Abbiamo voluto riscoprire figure eccellenti della storia cristiana: S. Teresa BG, padre Christian de Bergé (trappista ucciso dalla Jiad islamica), Paolo di Tarso, San Francesco, Santa Paola Elisabetta. Ma come sappiamo, i santi portano a Gesù. E’ stato bello riscoprire come questi santi hanno vissuto la loro missione, ma questo è ovvio il primo, vero missionario è Gesù: il Verbo di Dio che si fa carne. Cosa dice Gesù della sua missione? Usa spesso parabole come il vangelo di oggi: immagini semplici che invitano alla comprensione prima e poi alla sequela.
“Chi ha orecchi per ascoltare ascolti”, la frase allude a un ascolto attento. E suggerisce l’importanza, ma anche la misteriosità di ciò che viene detto. Qui “orecchio” sta per intelligenza: ciò che viene detto è, infatti, qualcosa da decifrare, e richiede l’attenzione della mente e del cuore. Disposizione che però non tutti hanno, vale a dire che esiste l’eventualità di non capire. La parabola del seminatore è quindi importante, va decifrata: alcuni comprendono, altri no. Le parabole si illuminano per chi è disponibile, restano oscure per chi ha il cuore indurito.
La parabola racconta la storia di una semina: “ecco, uscì il seminatore a seminare. E nel seminare..”. Una sola semina, lo stesso seminatore, lo stesso seme, gli stessi gesti, la medesima fatica, e tuttavia gli esiti sono diversi.
Ad una lettura attenta balza all’occhio che non il seminatore né il terreno sono al centro della parabola, ma il seme. Il seminatore compare all’inizio, poi non se ne parla più. E a parte il suo gesto iniziale, di lui non si dice nulla, né una parola né una reazione: sulla sua fatica, le sue speranze, le sue delusioni, la sua gioia per il raccolto abbondante. L’attenzione deve perciò concentrarsi sul seme; non sulle sue qualità, di cui nulla viene detto, bensì sulla sua sorte.
La parabola fa intendere che le quattro scene di cui si compone non costituiscono quattro storie diverse, ma una sola: quella, appunto, di un contadino che getta il seme nello stesso campo e nello stesso giorno. Fuori metafora: le quattro vicende del seme rappresentano gli esiti diversi dell’unica seminagione fatta da Gesù. La parabola racconta la storia del suo ministero, la sua missione.
I primi tre quadri sono la storia di un ripetuto fallimento: caduto sulla strada o fra i sassi o fra le spine, il seme non frutta. Soltanto nell’ultimo quadro si legge che il seme, caduto sul terreno buono, porta molto frutto.
I primi tre esiti assomigliano molto alle nostre fatiche troppo spesso inutili! A tutti i nostri insuccessi. La durezza della strada fatta di pietra assomiglia molto alle vicende che non producono nulla oppure qdo qualcuno si impossessa di quello che abbiamo prodotto noi! Poi i rovi: anche quel poco viene soffocato! E le pietre, qdo c’è un bel avvio e veloce, ma le scorciatoie non portano se non ad una strada senza uscita. E’ avvenuta la stessa cosa alla Parola, alla missione di Gesù: per primi i fallimenti! Ma perché? Forse perché il seme non era buono? In questione non è precisamente la verità della Parola, bensì la sua efficacia. Ciò che fa problema non è la bontà del seme, ma la sua concreta capacità di portare frutto.
Ma ecco in ogni caso dopo i ripetuti fallimenti, ecco il successo che ripaga della fatica. Chiedersi perché i terreni non permettano al seme di fruttificare è questione importante, che però riguarda gli altri. La parabola mira piuttosto non alle ragioni dei molti fallimenti, ma all’atteggiamento di fiducia che l’annunciatore della Parola deve assumere quando li incontra. Sottolineando per tre volte l’insuccesso, Gesù mostra come è la nostra vita.
Ma Gesù sposta l’attenzione dell’ascoltatore sull’abbondanza del raccolto: e lo fa con una serie di sottili contrapposizioni. Nei primi tre quadri la sorte del seme è descritta con “gli uccelli lo beccarono, il sole lo riarse, le spine lo soffocarono”. Invece, nel quarto i verbi sono all’imperfetto: “dava frutto, rendeva il trenta ecc”. In tal modo Gesù invita a concentrare l’attenzione sul seme che cresce e porta frutto. Sì, è vero che per tre volte il seme va sprecato, ma è ugualmente vero che la quantità non sprecata è molto grande. Ed è soprattutto l’abbondanza del raccolto che sorprende. Il trenta, il sessanta, il cento per uno è una proporzione altissima per allora che si arrivava circa all’otto – dodici rispetto al seminato.
Ci è richiesto fiducia nella vita, ma non in un futuro lontano: ora occorre sperare
la fiducia richiesta riguarda il presente più che il futuro. Questo è forse il tratto più singolare dell’intera parabola. I ripetuti fallimenti e il successo non sono disposti su una linea temporale: ora è il tempo dell’insuccesso, ma il futuro riserva ampio raccolto; oggi si sperimenta il fallimento della propria fatica, e oggi si sperimenta anche un grande raccolto! E comunque sia, non c’è ragione di scoraggiarsi, tanto meno di dubitare della presenza del Regno. La fiducia del contadino insegna a guardare al di là dei fallimenti, per accorgersi che la Parola del Regno è qui, fra smentite e successi, già ora efficace. Una frase di Gesù in Giovanni 4,15:”Levate i vostri cuori e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura”.
Fin qui il racconto parabolico: ciò che succede all’azione del contadino succede all’azione di Dio. Ma perché mai la semina di Dio deve assomigliare a quella di un contadino?
Stupisce però lo spreco di Dio. Il contadino eviterebbe lo sperpero, se potesse. Dio non dovrebbe, proprio perché Dio, evitarlo? Così la domanda cruciale si ripropone, costringendoci a rileggere la parabola per accorgerci che essa non darebbe nessuna risposta, se non venisse collocata in Gesù. Perché altro è l’azione di un contadino, altro quella di Dio. Ed è soltanto al storia di Gesù che permette di cogliere le ragioni della somiglianza. La storia di Gesù, gesti e parole, croce e risurrezione, è la parabola che illumina tutte le parabole. Le parabole svelano pienamente il loro senso solo dopo la Pasqua. Se la semina di Dio non è diversa da quella del contadino, è perché all’origine dell’agire di Dio c’è una sovrabbondanza di amore che sembra spreco e noncuranza, e che soltanto la croce di Gesù riesce a svelare nel vero senso: non sperpero o inefficace debolezza, bensì gratuità e luminosa rivelazione di chi è Dio.
A questo punto la figura del contadino muta fisionomia: i suoi gesti non sono più quelli semplici e abituali di un contadino della Palestina, ma i gesti rivelatori della generosità divina, tanto disinteressata e traboccante da rasentare l’incuria e lo spreco; ciò è tipico dell’amore che non calcola.
p. Giuseppe Vitari